Ombre su Varese

Di Giulia R., Febo R., Bianca M., Emma D., Beatrice T., Filippo C.

Craft paper border

La scrittura che unisce... Dopo la positiva esperienza di gemellaggio dell'anno passato, anche in questo 2022 gli alunni dei licei Crespi e Stein si sono incontrati in modalità online per condividere un'esperienza di scrittura creativa. Si sono confrontati, hanno superato imbarazzi e iniziali diffidenze, hanno messo in comune conoscenze e competenze... e dopo essersi calati in un Medioevo tenebroso, hanno popolato i luoghi del Varesotto con i loro personaggi, dando vita a racconti, tutti rigorosamente a sfondo gotico. Un'altra dimostrazione di quanto la scrittura possa superare ostacoli e unire. Buona lettura

Parchment

Nel Medioevo sulla sponda del Lago di Varese, rivolta verso Gavirate, si trovava un molo di barche abbandonate che ogni mercoledì sera si riempiva di pescatori, i quali vi si recavano di consuetudine ad arpionare dei pesci. Questo luogo, essendo ricco di qualsiasi varietà di pesce, era il più frequentato dai pescatori, anche se, isolato e tetro, incuteva grande timore e angoscia. Nel molo erano presenti delle barche ancorate, dimenticate e in parte danneggiate dal tempo. Le barche ricordavano vecchie leggende del paese ed erano usate dai pescatori come luogo in cui riporre gli arnesi per la pesca. Si narrava, infatti, che alcuni pescatori, usciti per pescare al largo, non erano più rientrati il mattino seguente e di loro non si era più avuta notizia. Per questo fatto, i pescatori temevano di addentrarsi nel lago e il mistero che lo circondava cancellava la volontà di sfidarlo, avvolgendo tutti nella diffidenza e trepidazione. A quel tempo, le acque del lago di Varese erano state suddivise in diverse parti appartenenti alle famiglie nobili della zona.&nbsp;

Antique paper texture

stava perdendo davvero tanto sangue, però non volle arrendersi al suo corpo, perciò appena ebbe ripreso maggiore stabilità delle sue gambe iniziò a zoppicare  per cercare di raggiungere la sua casa. Nel mentre, gli pareva di vedere ombre oscure che lo raggiungevano, sentiva numerosi rumori spaventosi e gli pareva di sentire addirittura un lupo ululare, ma tutto questo non aveva più importanza dopo la storia terribile che aveva ancora nella mente. Chissà se la vicenda era vera...però, pensò, per fare un sogno del genere qualcosa di vero ci doveva pur essere...

Chalkboard

sorella maggiore orribile e irresponsabile per non averlo fatto, Matilda era troppo piccola per capire che si trovava in pericolo. Arrivò in un punto sabbioso della riva, le sue piccole mani cominciarono a sprofondare proprio come i piedi; dopo pochi minuti non riuscì più a rialzarsi: la sabbia l’aveva imprigionata, si sporse leggermente in avanti cercando di divincolarsi, ma l’oscuro lago la prese con sé. L’acqua le riempì completamente i polmoni e il suo esile corpo sprofondò.&nbsp; Non vedendo più Matilda, decidemmo di andare a cercarla. Iniziammo dal campo di margherite vicino al posto in cui avevamo acceso il fuoco, per poi proseguire verso la riva del lago. L’unica luce che avevamo a disposizione era il riflesso della luna che rifletteva sulla superficie cristallina dell’acqua. Di tanto in tanto sentivamo qualche rumore provenire dalle nostre spalle ma Martino era convinto che fossero semplicemente le foglie secche dell’autunno che toccavano terra. Dopo aver percorso tutta la riva del lago decisi di sedermi a terra per riprendere fiato. Non l’avevamo ancora trovata. Lacrime amare cominciarono a cadere dal mio viso. Guardando avanti per cercare la luna feci dei profondi respiri quando il mio occhio cadde su una sciarpa che galleggiava nell'acqua: sembrava proprio quella di Matilda. Entrando in acqua senza esitazione la recuperai quando sentii qualcosa sotto di me. Feci per alzare la gamba ma rimase bloccata nella sabbia, urlai chiedendo a Martino di aiutarmi. Anche lui entrò in acqua e aiutandomi lentamente riuscì a tirare fuori la gamba senza farmi male. Lo ringraziai con ancora il viso umido dalle lacrime ma non feci in tempo a fare un altro passo che di fianco a me trovai il corpo galleggiante di mia sorella. Era pallida in volto e aveva gli occhi spalancati. Lanciai un urlo di terrore e nello stesso attimo uno stormo di uccelli attraversò il cielo sopra di noi. Il mio cuore sembrava voler uscire dal mio petto e i miei occhi lottavano per non guardare l’orribile spettacolo che la palude mi riservava.

Paper texture

Nella prima metà del Medioevo, presso un luogo abbandonato del basso Verbano, sorgeva un antico castello avvolto dal mistero. Al di sotto di esso vi era un borgo di modeste dimensioni, i cui abitanti furono sterminati da una pestilenza, lasciandolo inabitato, se non da fantasmi. Da tempo immemore le persone dei ducati vicini avevano tentato di avvicinarsi ad esso per appropriarsi del cospicuo patrimonio della nobile famiglia De Monaldi, ma nessuna di loro aveva mai fatto ritorno. Coloro che tentavano di avvicinarsi venivano perseguitati fino alla morte, che spesso si consumava in modi terribili e atroci: venivano squartati, crocifissi o appesi vivi a testa in giù.&nbsp; Una sera al calar del sole, ritornando dalla lontana Provenza, un giovane cavaliere chiamato Gerardo, giunse a quella che sarebbe diventata l’odierna Angera.&nbsp; Egli scoprì di essere discendente dei De Monaldi e quindi decise di appropriarsi del loro tesoro. Arrivato alle paludi che circondavano il borgo, il cavaliere, non sapendo come raggiungere la piccola cittadina, per un momento si sentì disorientato. Poi, in lontananza, scorse un lugubre e stretto sentiero che sembrava proprio collegare quel luogo così cupo al posto in cui vissero i suoi antenati. Iniziò, quindi, a percorrere quel tragitto.

Di Giada S., Daniela Z., Dario A., Alberto A., Federico B., Gregorio M

Quando ebbero finito di ballare, diedero ufficialmente il via alla festa e tutte le famiglie entrarono nella sala a ballare. Anche io ballai e nel mentre un ragazzo si avvicinò a me e mi chiese di danzare con lui; io risposi di sì e, facendomi un piccolo inchino, mi prese la mano e iniziammo a ballare. Lui aveva un vestito blu scuro, con una fascia sul petto e delle medaglie, che dovevano appartenere alla sua casata. Mentre ballavamo, lui mi parlò un po’ di sé, dicendomi che apparteneva alla famiglia proprietaria del palazzo. Continuammo a ballare e a me piaceva tantissimo, così mi lasciai trasportare da una parte della sala all’altra. Il ballo continuava, ma io ero davvero stanca e per questo ci fermammo. Lui mi chiese se volevo andare a vedere il palazzo insieme a dei suoi amici. Ci pensai un’attimo e poi risposi che non c’era problema, ma che non mi sarei dovuta allontanare dalla mia famiglia per troppo tempo. Così arrivarono gli amici del ragazzo e insieme andammo a visitare tutte le sale del palazzo. Passato un po’ di tempo, dissi che sarebbe stato meglio se fossi tornata dalla mia famiglia, ma lui mi disse che mancava ancora da vedere la fantastica torre assieme al suo splendido panorama. Salimmo su quella piccola scala che si attorcigliava all’interno della torre. Appena in cima, rimasi sbalordita dall’eccezionale vista che si aveva sul lago e sulla mia terra. Così, dopo pochi minuti trascorsi a osservare il panorama, mi girai e vidi che i ragazzi erano tutti serrati davanti l’entrata per la torre. Io non ci pensai e dissi che dovevo tornare alla sala da ballo, in quanto si era fatto davvero tardi e la mia famiglia probabilmente si stava preoccupando per la mia assenza. Mi incamminai quindi verso l’uscita dove si trovavano i ragazzi, ma ad un tratto sentii la loro risposta: “Tu non vai da nessuna parte”. Io mi fermai repentinamente, pensando che non avevo capito bene ciò che mi era stato detto; quindi chiesi di ripetere e loro mi diedero la stessa risposta. Così capii che volevano ferirmi: il ragazzo con cui avevo ballato mi prese per il braccio e mi buttò all’indietro, caddi e mi feci male alla schiena. Allora tutti si avvicinarono a me, guardandomi con un'espressione che sembrava inumana: le labbra tendevano a un piccolo ghigno, gli occhi con le pupille nere come l’ombra serrate su di me. Capii che Il ragazzo con cui mi ero divertita stava per uccidermi: aveva un coltello in mano che luccicava in modo sinistro ai raggi del sole che passavano dalle finestre. Lo guardai e lo implorai di non farmi del male, ma lui, impiantò l’affilata lama nel mio

Nei primi anni del 1300, una famiglia benestante intraprese un lungo viaggio da Luino verso Milano. Uno di loro era il promesso sposo di una nobildonna di quella città. Tuttavia, nel loro viaggio per raggiungerla, fecero tappa a Varese per sbrigare alcuni affari prima del matrimonio del primogenito.&nbsp; La famiglia della sposa, informata in anticipo di questa loro decisione, offrì come alloggio per la notte la villa in riva al lago. Ad attendere il loro arrivo ci sarebbe stato un maggiordomo. Gli ospiti giunsero più tardi del previsto, all’imbrunire. Scesero dai loro cavalli e li legarono a dei salici. Le fronde di questi alberi ondeggiavano vistosamente a causa della brezza serale e rendevano l’atmosfera lacustre angosciante. Le mura color mattone della magione, illuminate dalla sola luce del crepuscolo, apparivano tetre. Entrando nel giardino, vennero accolti da un lungo viale di cipressi. Dopo aver bussato alla porta della residenza, sull’uscio comparve un servitore anziano e curvo che li condusse all’interno. Il corridoio che stavano percorrendo appariva angusto e cupo a causa dei grossi quadri di avi che proseguivano su due file ordinate su entrambe le pareti. Alla fine del corridoio c’era una scala a chiocciola che conduceva al piano superiore, dove si trovavano le stanze da letto. Arrivati nelle camere tutti si addormentarono per la stanchezza del tragitto percorso. Tuttavia la madre, insolitamente, non riusciva a prendere sonno e continuava a girarsi nel letto, disturbando anche il marito.

Non bisogna nascondere che, però, seppur fosse il cavaliere più coraggioso della sua corte, Gerardo in quel momento era piuttosto spaventato: infatti, sapeva molto bene quali oscuri misteri e segreti si celavano dietro al tesoro dei De Monaldi. Progressivamente il sentimento di terrore che per qualche momento Gerardo aveva provato si affievolì; ma, proprio quando il coraggio era nuovamente riapparso in lui, il cavaliere udì alle sue spalle uno strano lamento che lo fece rabbrividire. Gerardo si girò senza vedere nessuno. “Insolito, molto insolito” – pensò fra sé e sé. Non fece in tempo ad andare avanti di qualche passo, che lo sentì di nuovo. Si girò ancora una volta, ma non scorse nulla. Udito il suono per la terza volta, egli si rese conto di quello che stava accadendo; il cavaliere, infatti, scorse l’ombra di una figura nel riflesso di una delle pozzanghere che circondavano il sentiero. Gerardo scoprì che si trattava di una vecchietta: aveva i capelli grigi e ispidi, le guance scavate, piene di rughe e un lungo naso a punta. Quella si avvicinò furtivamente al nostro cavaliere, dicendo: "Buonasera, caro Gerardo". A queste parole, egli sobbalzò: come faceva la donna ad essere a conoscenza della sua identità? Preso dal panico, Gerardo afferrò istintivamente la spada che portava sempre con sé in una custodia agganciata alla propria cinghia e la scagliò contro la vecchietta.

Caro diario, riesci a spiegarmi cosa sta succedendo?! Non riesco a trovare le parole, non riesco nemmeno a scrivere da quanto mi sta tremando la mano! Ieri sera stavo scrivendo una tua pagina, ma d’un tratto, uno dei contadini bussò ferocemente alla porta, urlando che dovevo uscire immediatamente. Io interruppi la scrittura, spalancai la porta e fui trascinato nella sua camera da letto; guardai a terra e vidi un corpo morto, con il viso pallido e gli occhi semiaperti! Spalancai gli occhi e mi avvicinai al cadavere: vicino alla sua mano, c’era una boccetta aperta con uno strano liquido verde al suo interno; guardai l’uomo in piedi dietro di me, che poi mi disse di averlo sentito dire, mentre si stava accasciando, delle parole confuse, come “bevimi” e “vai via”. Capii che aveva bevuto del veleno, ma la vera domanda è: perché? Ci rendemmo conto che avevamo bisogno d’acqua, così, noi tre rimasti vivi, ci dirigemmo verso il pozzo nel bosco. Durante la camminata, eravamo tutti molto turbati: gli alberi, il buio e il solo rumore degli animali selvaggi incutevano una grandissima paura, tanto che continuavamo a guardarci alle spalle. Una volta arrivati, prendemmo il secchio e lo mandammo giù; di colpo, sentimmo delle voci: ci sembrò quasi che provenissero dal fondo del pozzo, così i due contadini con me si sporsero giusto un po’ per vedere se ci fosse qualcuno all’interno, ma non feci in tempo a dir loro di stare attenti, che qualcosa li spinse e caddero per decine di metri, fino a che non sentii un tonfo nell'acqua e le loro grida cessare. Non mi ero mai spaventato così tanto, iniziai a correre per tutta la foresta, fino ad uscirne e arrivare qui, nel monastero, in questo momento, a raccontare a te questo incubo.

Fu allora che tutto, intorno a me, sembrò fermarsi: le foglie smisero di cadere, il fruscio del ruscello dietro il lago cessò e il rumore dei passi dei miei compagni sembrava ormai inesistente. L’aria fredda della sera mi fece passare un brivido per la schiena; ad un tratto vidi qualcosa, e presto capii che era un lupo: continuai a guardare la bestia davanti a me senza emettere un suono. Ero terrorizzata. Senza pensarci due volte, presi in braccio Matilda e urlai agli altri di scappare. I nostri strepiti riecheggiavano nell’aria mentre il lupo alle nostre spalle ci inseguiva. La presa ferrea di mia sorella dava solo un pretesto alle mie gambe per correre ed allontanarmi da quel posto. Ad un tratto, sentii una stretta al polso sinistro e vidi Martino che, urlandomi di non fermarmi, mi trascinava con lui verso l’interno del bosco, lasciando gli altri correre dalla parte opposta. Dopo aver seminato il lupo, ci accorgemmo di non sapere dove fossimo; cercando una via di ritorno, si fece notte e dato che Matilda cominciava a pesare e avevamo freddo decidemmo di riposarci e di accendere un fuoco. Mentre Matilde dormiva sulle mie gambe, mi arrabbiai con Martino per la sua scelta di dividerci dal resto del gruppo; lui si difese dicendo che era stata una mossa istintiva e che non c'era motivo di discuterne ma, turbata dalla situazione, continuai ad attaccarlo. Spostai Matilda per alzarmi in piedi e camminare per scaricare la tensione, facendo attenzione a non svegliarla. Martino, vedendomi sconvolta, si avvicinò per tranquillizzarmi.&nbsp; Ora restava solo da cercare gli altri. Mentre io e Martino ci riscaldavamo attorno al fuoco, pensando a come ritrovare gli altri, Matilda si svegliò e si allontanò; da sola arrivò fino alla riva del lago, aveva visto la luna e aveva deciso di andare a vederla, voleva arrivare a toccarla: la sua luce era un faro nella notte tenebrosa. Ancora oggi penso a cosa sarebbe successo se mi fossi accorta prima della sua mancanza e mi sento una

Era una fredda giornata d'autunno e le poche foglie ancora appese ai rami degli alberi cadevano lievemente, preannunciando l'arrivo dell'inverno. Stefano era andato a caccia in una foresta poco distante dal villaggio per raccattare delle scorte di cibo per poter sopravvivere durante la stagione più gelida dell'anno e, nonostante si fosse addentrato nella selva nel primo pomeriggio, i raggi del sole stavano già per andarsene, lasciando il posto alle tenebre della notte: i rami spogli, illuminati dalla flebile luce rimasta, andavano a formare delle ombre sul terreno simili a scarne braccia che si allungavano lentamente nel tentativo di intrappolare qualsiasi cosa avessero incontrato; i cinguettii si erano placati e si cominciava a sentire invece il bubolare dei gufi. Il ragazzo aveva preso soltanto una magra lepre e, nonostante lo scarso bottino, tentò di incamminarsi verso la via del ritorno; tuttavia, tentando di tornare a casa, non fece altro che inoltrarsi in parti ancora meno conosciute della selva e infine capì di essersi smarrito. La foresta tacque e si poté udire solamente il vento, il quale, scontrandosi contro gli alberi, produceva un sussurro che pareva parlare a Stefano.&nbsp; D'un tratto si sentì qualcosa, forse un ramo spezzato e il ragazzo si mise a correre nella direzione opposta, ma, durante la corsa, inciampò in una radice e cadendo sbatté la testa contro un piccolo masso, ferendosi ad una gamba. Percepiva che una creatura si faceva sempre più vicina e immantinente si rialzò riprendendo la fuga, pur provando un forte mal di testa e zoppicando a causa dell'arto dolente. Al suo passaggio i corvi stanziati sui rami più alti gracchiavano levandosi in volo; gli alberi parevano spostarsi per schiacciarlo e sembrava anche che alzassero appositamente le loro radici per farlo cadere. Proseguì la fuga fino a quando non si ritrovò di fronte a delle immense mura di pietra che dovevano proteggere una sontuosa abitazione. Preso dalla curiosità e dolorante per la ferita alla gamba, decise di addentrarsi nella dimora che con il tempo era stata abbandonata alle intemperie e alla natura. All’entrata, si

Caro diario, che giornata! Che paura! Mi viene il terrore solo a pensarci! Ieri notte stavo andando a prendere un bicchiere d’acqua con una candela accesa in mano, ma ad un certo punto, superata la porta della cucina, sentii un soffio vicino al mio collo, che spense la fiammella. Pensando si trattasse del vento che entrava da una finestra, non mi spaventai e riaccesi la candela, ma, fatti altri due passi, essa si spense di nuovo! Preso dal terrore, scappai a tutta velocità dagli altri contadini, ai quali raccontai la vicenda, ma quelli, poiché volevano dormire, non mi diedero ascolto. Ovviamente, non riuscii a prendere sonno: continuavo a sentire strane voci rimbombare nelle mie orecchie, che dicevano di scappare, che dovevo andarmene, che c’era una maledizione nel monastero!&nbsp; Stamattina, andammo verso i campi vicini, per vedere se fossero coltivabili; portammo con noi pala e zappa e iniziammo a scavare il terreno. Improvvisamente, uno di noi sentì qualcosa di duro fra la terra, allora lasciò la pala e ci accovacciammo per scavare con le mani; vedemmo un grande sasso bianco, lo tirammo fuori e rimanemmo a bocca aperta: era un teschio! Non appena ci alzammo, notammo che la pala stava fluttuando nell’aria, ma non facemmo in tempo a guardarci, che il contadino con l’oggetto tra le mani era già a terra senza sensi. Spaventati, iniziammo a correre verso il monastero e ci rifugiammo in camera, chiudendola a chiave. Ora sono qua che scrivo, con il cuore che ancora mi batte. Purtroppo, non siamo riusciti neanche a tornare in quel posto per seppellire il nostro compagno e&nbsp;

OMBRE SU VARESE

2CL-2DL LICEO CRESPI &amp; 2BS LICEO STEIN

Il Tesoro dei De Monaldi

Di Simone F., Elia M., Gioele P., Iris Alessandra P., Francesca R., Alice S., Eleonora S.

A pochi chilometri dalla sponda di Gavirate, sull’Isolino Virginia, dimorava un pescatore solitario, di cui nessuno conosceva il nome. Le uniche informazioni che si avevano riguardo a lui lo descrivevano come un uomo di mezza età, dall’aspetto cupo e trasandato, che indossava sempre una giacca marrone, strappata, sporca e più larga della sua taglia; portava anche un cappello rigorosamente nero, logoro con il quale copriva i suoi occhi indagatori. Secondo voci che circolavano, quest’uomo trascorreva la maggior parte delle sue ore, seduto su una sedia all’esterno della sua casa in rovina, affilando un lungo coltello, dal manico rosso sangue. Mentre il tempo scorreva, di tanto in tanto volgeva il suo sguardo omicida verso il molo e sembrava sussurrare tra sé delle parole di morte. Il nostro pescatore riteneva che la zona di lago che circondava il suo isolotto e che si estendeva fino alla sponda, comprendendo anche il molo di barche, fosse di sua proprietà e di conseguenza in quello spazio, lui solo aveva il diritto di pescare. Ogni mercoledì sera, il pescatore solitario si appostava in un punto nascosto e poco illuminato del suo isolotto con lo scopo di realizzare una mappa che lo aiutasse a capire, quali pescatori avessero arpionato dei pesci nelle sue acque. Egli disegnava non solo l’aspetto fisico del pescatore in questione, ma anche le caratteristiche della barca in cui riponeva gli strumenti per pescare. Inoltre, rappresentava il contenuto della barca e visto che lui abitava sull’isolotto da tantissimo tempo, possedeva una conoscenza fuori dal comune di ogni barca del molo ed era in grado di identificarle e comprendere chi fosse il pescatore in questione.

trovavano due grandi statue che raffiguravano due animali fantastici con la testa da avvoltoio, il corpo da leone e la coda di quel che gli sembrava un serpente; anch'esse erano rovinate dal tempo e avvolte dalla vegetazione. Nonostante la paura, la curiosità prevalse e decise di avanzare. In tutto l’edificio si respirava un’aria di vissuto, che sembrava volesse raccontare qualcosa di inquietante. Camminando per la dimora, Stefano si accorse che tutta la struttura cedeva alla forza della natura: le piante rampicanti assediavano le pareti, alcune delle quali sotto il loro peso erano già crollate o stavano per farlo. Sulle pareti interne, coperte e riparate dagli effetti del tempo e della natura, si potevano vedere ancora i segni di quello che era stato l’antico arredamento del palazzo: qualche tappeto strappato a terra, vetri di quello che doveva essere l’antico lucernario che, evidentemente, si era frantumato al suolo distruggendosi. Stefano, facendo attenzione a non graffiarsi con il vetro e alle travi instabili che sentiva scricchiolare sotto i suoi piedi, continuò la sua escursione nella dimora, dirigendosi verso la torre che straordinariamente aveva retto il suo stesso peso da quando la rocca era stata abbandonata. Gli scalini erano avvolti da muschio e rampicanti che entravano dalle finestre laterali e si facevano strada all’interno della torre che sembrava essere sorretta proprio da queste piante. Le ragnatele non erano molte e Stefano ne strappò qualcuna al suo passare. Continuò a salire i gradini e salì in cima alla torre dove si trovava una sorta di piccola sala che doveva fungere in passato da punto per avvistamenti sul territorio. Stefano guardò in una delle finestre e vide il magnifico panorama sovrastato dalla vicinissima notte con le sue splendide stelle. Ad un tratto notò che vicino a lui, tra il muschio e le piante, si trovava un cadavere; Stefano si spaventò e tirandosi indietro in uno scatto repentino, rischiò di scivolare sul muschio umido. Passato lo spavento, decise di controllare meglio; si avvicinò e, spostando con un rametto le piante, vide che si trattava dei resti di un essere umano. Rimanevano le ossa perfettamente conservate e un vestito da donna stranamente conservato dotato ancora del suo antico splendore.  Stefano notò che all’altezza del busto si trovava un oggetto semisplendente che rifletteva quei pochi raggi di sole rimasti. Decise di raccoglierlo , pensando che poteva probabilmente trattarsi di qualcosa di

prezioso e dal quale avrebbe potuto ricavare qualche ambrosino. Con ribrezzo si avvicinò e trovò un medaglione d’oro con motivi floreali intorno e un piccolo ma bellissimo rubino rosso. Meravigliato dalla scoperta appena fatta, si rigirò il tesoro tra le mani. Poi, lo aprì. C’era l’immagine dipinta di una bella famiglia: il padre, un uomo grosso, dalla barba rossa come i capelli arruffati; la madre, una donna dai lunghi capelli corvini; quello che doveva essere il fratello maggiore, un bel ragazzo, alto e dai folti capelli come il padre; la sorella di mezzo, una ragazza bellissima e identica alla madre; infine due gemellini che si tenevano per mano. Non appena il ciondolo venne aperto, però, si alzò un vento gelido, quasi artico. Stefano, con il monile in mano, si alzò di scatto; provò ad andarsene, ma il vento gli si opponeva. Ad un tratto il vento si placò e contemporaneamente gli si stagliò davanti la figura di una ragazza: era semi-trasparente. Notò che i lineamenti erano gli stessi della ragazza nel piccolo ritratto contenuto nel ciondolo. Era terrorizzato. Voleva scappare, ma le sue gambe non rispondevano. Voleva urlare, ma la voce non usciva dalla gola. Si era bloccato. Riusciva solo a guardare il fantasma e a balbettare cose incomprensibili. La ragazza-fantasma si guardò intorno e vide che davanti a lei si trovava il ragazzo che la fissava terrorizzato.&nbsp; -Sono...Sono morta? E...chi sei tu?- disse lei. Per tutta risposta il ragazzo continuò a rimanere a bocca aperta. -Non vorrei farti paura, ma è questo l’effetto che fa un fantasma, giusto? Sai, anche per me è la prima volta. Che sono un fantasma, intendo.- -Tu...s-sei uscita da qui dentro e...- -Credo di sì. L’ultima cosa che ricordo è che dei ragazzi, dopo un ballo mi hanno seguito e che uno di essi, mi ha colpito con un pugnale. Aspetta: ma quello è il mio corpo?”- Fu qui che Stefano capì che anche i fantasmi si possono spaventare: la ragazza infatti aveva la voce rotta, come se stesse per piangere lacrime invisibili e incorporee che si sarebbero dissolte prima di toccare terra. -Credo...credo di sì. Ho trovato questo al tuo collo.- -Oh, sì. Quella era la mia famiglia. Credo che ormai siano tutti morti.- Poi, ci fu un lungo momento di silenzio.

La leggenda narra che i volti mancanti delle tre monache rappresentate in un affresco, situato al secondo piano della torre, non siano mai stati disegnati, a causa della loro fuga dal monastero e che, divenute spiriti, vaghino nelle vallate di Torba, cercando di rientrare nell’affresco per ritrovare la pace.

Caro diario,&nbsp; all’alba di una fredda giornata d’autunno, io e altri quattro contadini ci addentrammo in una selva per raggiungere il monastero di Torba. Esso si innalzava in un prato trascurato e rinsecchito, attraversato da un fiume; la severa facciata era in pietre e mattoni, ricoperta di muschio. Il recinto costruito in legno, ormai marcio, sembrava essere stato abbattuto da terribili creature mostruose. Le scure e strette finestre della facciata incutevano terrore e non permettevano il passaggio della luce, come se un oscuro velo ricoprisse l’intero edificio. Superato l'imponente portone, sentimmo subito il cattivo odore di muffa e umidità; sparsi per le varie stanze, c’erano dei quadri impolverati e alcune finestre erano rotte. Iniziammo a pulire, liberandoci dei dipinti del primo piano, il luogo in cui avremmo dormito; ci dividemmo in tre stanze cupe e fredde: io sono finito da solo, per di più nella stanza più buia.

L'unica persona con cui il pescatore solitario aveva contatti era una donna, che vagava per le strade sola e trasandata e che lasciava un’aria misteriosa attorno a sé. L'uomo aveva chiesto a questa donna, che si rivelò poi essere una strega, di incantare quelle ghiacciaie, in modo tale da trasformare i cadaveri delle sue vittime in esseri mutanti, metà pesce e metà uomo, che avrebbe potuto sfruttare a suo piacimento in ogni occasione.  Ogni volta che un pescatore tentava di andare al largo, sfidando il lago, si ripeteva la stessa macabra vicenda.  Un giorno alcuni pescatori decisero di investigare arrivando alle ghiacciaie, dove videro gli esseri mutanti. Attoniti riconobbero i pescatori che non erano più rientrati dopo essersi avventurati nel lago e iniziarono ad urlare a squarciagola i loro nomi. Così facendo, gli esseri mostruosi si agitarono talmente tanto che, spezzarono il malefico incantesimo della strega. Tornati uomini, si diressero alla casa del pescatore solitario, lo trovarono seduto sulla sua sedia e con il suo coltello rosso gli trafissero il cuore, lo scuoiarono e lo trascinarono, grondante di sangue, alle ghiacciaie dove lo legarono con la fune creata con la sua stessa pelle.&nbsp;

La donna venne sventrata, ma subito dopo il corpo si ricompose, tornando esattamente come prima. Gerardo venne pervaso da paura e terrore: si allontanò dalla donna, e con voce tremante, disse: "Chi siete voi? Cosa volete da me? Ho commesso io qualche misfatto per il quale debba essere punito?". "Non avete compiuto alcun atto impuro - lo rassicurò - ma, come credo abbiate già intuito,&nbsp;proprio per voi sono giunta sino a qui. So di certo che vi siete recato in questo luogo per riuscire ad appropriarvi dell'antico tesoro dei De Monaldi, perché ne siete legittimamente erede, ma prima devo anche essere sicura che ne siate degno. Per questo, ora vi condurrò sino ai piedi del castello, e poi vi farò entrare; qui sarete sottoposto a delle prove e se riuscirete a superarle potrete impossessarvi dell'ambito tesoro. Ah, dimenticavo, non mi sono ancora presentata: sono una dei vostri antenati, ormai defunta, a cui è stato dato il compito di sorvegliare il tesoro." Durante il tragitto per andare alla fortezza, Gerardo dovette affrontare tante avversità: mostri ed esseri malvagi di ogni tipo, fiere, fantasmi, terreni avversi, rovi e fango. Superate queste avversità, talvolta per poco e con gran difficoltà, finalmente, accompagnato dalla sua guida, giunse ai piedi del castello, dove dovette affrontare l’ultima prova.

« Perché tanto tormento, mia cara? » « Oh, mi spiace, non avrei voluto infastidirvi! Credo sia dovuto al cambio d’ambiente: non mi sento a mio agio ad essere in un letto non mio. Ad ogni modo, andrò a prendere un bicchiere d’acqua; torno presto, non aspettatemi sveglio. » Così dicendo, la donna uscì dalla stanza e scese la lunga scala scricchiolante dove, alla fine, vide qualcosa che l’atterrì: delle piccole gocce di sangue. « Maggiordomo! » chiamò con voce alta, ma leggermente tremante. Nessuno rispose. Alzò lo sguardo, smarrita, in una muta richiesta d’aiuto e d’un tratto vide uno spettro. “Fuggi!” sembrò sussurrarle, ma non ebbe il tempo di fare nulla perché una figura incappucciata le tappò la bocca e la pugnalò allo stomaco. I minuti passavano, del cadavere restavano solo le tracce del nobile sangue, ma il marito era ancora sveglio ad attendere che la moglie tornasse a letto; si preoccupò e dunque decise di cercarla, pensando che avesse avuto un malore. Vagava inutilmente per i lunghi corridoi, in un clima freddo e misterioso; la luce della luna che filtrava tra le nuvole e entrava dalle finestre creava delle ombre agghiaccianti sul pavimento impolverato. A seguito di un’infruttuosa ricerca negli ambienti interni, decise di controllare se fosse in giardino a prendere un po’ d’aria.

Quindi uscì, pensando di trovare i genitori vicino ai cavalli, pronti a partire, ma non fu così. L’intero luogo era circondato da una calma surreale. Si avvicinò alla sponda del lago, non sapendo più dove poter volgere il suo disperato sguardo. Fu allora che li vide insieme al maggiordomo, ma senza vita. I loro corpi erano coperti di sangue. Restò inorridito e l’unico impulso che ebbe fu quello di scappare. Non ci riuscì. Si sentì improvvisamente prendere per il collo. Una voce gli sussurrò: « Mi hanno sempre detto che sarebbe arrivato anche il mio momento, e per tutta la vita non ho fatto altro che aspettare, ma alla fine ne sono uscito sempre perdente. Questa volta non potevo permettere che ti intromettessi tra me e colei che più amo al mondo. Ora hai sofferto, sai che cosa si prova quando manca qualcuno. Agnese è il mio destino e né tu né nessun altro me la porterà via. Oggi ci sarà un altro finale: quello che scriverò io. » L’uomo estrasse il pugnale dal fodero e, con occhi iniettati di sangue, commise il suo quarto omicidio. Non avrebbe voluto uccidere anche il maggiordomo, ma era stato necessario disfarsi di lui per poter proseguire con il piano che aveva elaborato.&nbsp;A quel punto, prese i cadaveri e, ad uno ad uno, li spinse lontano dalla riva, lasciando che la corrente del lago li portasse al largo, montò a cavallo e fuggì appena in tempo per non essere visto in piena luce diurna. Da quel momento, gli spiriti innocenti di quelle persone, che mai avevano trovato sepoltura, vagarono per sempre in quel luogo, infestando la villa e tutto il lago.

Di David A., Alice B., Nikita B., Margherita F., Asheber M., Erika P., Gabriele R.

Caro diario, è mattina e io sono da solo. Ho una brutta sensazione… per questo motivo sto scrivendo ogni cosa che faccio, minuto per minuto. Innanzitutto, mi sono svegliato con le voci della prima notte nelle orecchie; purtroppo, le sento ancora. Vedo un riflesso nello specchio della stanza, mi avvicino e vedo i tre volti delle monache e ...

Di Rachele Maria Vittoria S., Fedra Maria M., Stefano R., Nour El Islam S., Federico P., Tommaso T.

Nel mentre, si era levato un vento tale da spezzare molti dei rami dei cipressi. Non era raro, in quelle occasioni, che gli embrici dei tetti più vecchi cadessero. Fu così che il padre del promesso sposo morì: mentre camminava accostato all’abitazione, quasi sentendo la pelle del braccio sfregare contro le ruvide mura di essa, una tegola rossiccia in laterizio lo colpì sulla nuca. Perse subito conoscenza e cadde ferito, con il sangue che fluiva dal cranio; non ebbe il tempo di soffrire. Le ultime cose che vide furono un’ombra nera e degli sfocati frammenti di un cielo senza stelle. Alle prime luci dell’alba, il giovane promesso sposo si destò improvvisamente dal sonno avvertendo dei rumori. Restò immobile nel letto per alcuni secondi. Sentì i battiti del cuore aumentare ad una velocità sempre maggiore e rapidamente si alzò dal materasso il più silenziosamente possibile. Si precipitò nella stanza da letto dei genitori per domandare se avessero sentito anche loro i medesimi suoni innaturali che aveva udito lui, ma non li trovò. « Padre? Madre? Dove siete? » gridò. Nessuna risposta. « Maggiordomo? » disse alzando ancora di più la voce, ma neppure questa volta, ricevette alcuna replica. Tormentato dall’angoscia e dai brividi di paura che percepiva in tutte le membra, si affrettò ad aprire ogni porta del piano superiore, ma le stanze erano tutte vuote. Scese al piano terra, ma anche qui non trovò nessuno.

<a href="bookcreator://page/8VoKBjWIQXe-fJqWzgf73Q">Il mistero delle acque di sangue</a> <a href="bookcreator://page/EHrS9DlfQaGm4F_LWWUX7w">Gli spiriti dell'acqua</a> <a href="bookcreator://page/kNkNmn8_THyTfV5bsoIwhw">La profezia del monastero di San Michele</a> <a href="bookcreator://page/Oae-sGyfQCqFizhsrqyV0g">Il tesoro dei Monaldi</a> <a href="bookcreator://page/DF-BtIMER_60pLu4N92qww">L'amuleto</a> <a href="bookcreator://page/_FYHMZe6S2O9AbwxMFGsBQ">Un quadro senza volti</a> <a href="bookcreator://page/TbbDI9utR9ujaIM8UngkXA">La notte fatale</a>

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Finalmente giunsero in una stanza illuminata da delle candele che permettevano di vedere più chiaramente. Era una camera colma di affreschi sbiaditi che ritraevano dei santi. Ad un tratto, a uno dei due sembrò che la figura di un affresco si fosse mossa; era stato un movimento impercettibile degli occhi, ma lui era riuscito a coglierlo. L’altro giovane non credeva a quello che gli disse l’amico, o forse non voleva crederci. Per dimostrare all’altro che si stava sbagliando, osò avvicinarsi al dipinto e addirittura toccarlo. Nel momento in cui la sua mano si posò sull’affresco, dal muro si aprì un passaggio segreto: era un corridoio stretto che portava a un’uscita, ma non era facile scorgere la fine di quel tunnel. I due giovani, che erano stanchi di camminare per il maledetto monastero e che non vedevano l’ora di essere fuori da quel luogo, decisero che avrebbero attraversato il passaggio, nella speranza che esso potesse condurli all’esterno. Il corridoio era strettissimo, tanto da far mancare il respiro. Più avanzavano, più il passaggio si stringeva&nbsp;e diventava buio; dunque dovettero affrettarsi per evitare di rimanere schiacciati. Una volta usciti, si guardarono intorno e si accorsero di essere circondati da pini, gli stessi pini dell’ingresso del monastero. Sembrava che avessero trovato la via d’uscita, ma lo spazio era circondato da mura e non era presente alcun cancello. Dietro di loro il passaggio era scomparso. I due rimasero inerti, pietrificati. Capirono di non avere scampo, che non esisteva alcuna via d’uscita da quel labirinto.

“Guardatevi dal monastero di San Michele. Allo scoccare della mezzanotte, quando nella città inizia a regnare il silenzio, gli spiriti che abitano fra le mura dell’edificio escono allo scoperto e si divertono a spaventare chiunque si trovi nei dintorni.” , diceva una vecchia profezia.&nbsp; Ogni sera, un’anziana signora dal viso pallido ed i capelli bianchi, si aggirava per le strade dell’antica Lonate Pozzolo e terrorizzava i passanti, pronunciando quest’antica profezia sul monastero di San Michele. Ormai, tutti erano stanchi di sentire la solita storia e nessuno le credeva più; ma quella sera due giovanotti, arrivati da poco in paese, incuriositi dalle parole dell'anziana signora, decisero che la stessa notte si sarebbero recati di persona al monastero a verificare se le dicerie fossero vere. Vicino al&nbsp;centro del paese si estendeva un piccolo bosco nel quale, tra molti pini, sorgeva l’oscuro monastero. L'unico modo per raggiungerlo era un piccolo sentiero che si imboccava da un vicolo abbandonato. Non appena calò il buio, i due giovincelli montarono a cavallo, diretti verso il misterioso monastero di San Michele.&nbsp; Entrati nella pineta, furono circondati da fitte tenebre. Intimoriti dall’oscurità e dal silenzio che regnava in quel luogo, i due avrebbero preferito tornare indietro, ma data la forte curiosità, si fecero coraggio e proseguirono nella boscaglia tenebrosa.

Nel corso della nebbiosa notte di mercoledì 17, un pescatore coraggioso e temerario, volendo sfidare il lago e le numerose leggende tramandate, si spinse al largo con una delle imbarcazioni abbandonate, con la speranza di procurarsi un’enorme quantità di pesci. Il pescatore solitario, vedendolo arrivare, si avvicinò alla sua barca e liberò degli esseri mostruosi, oscuri e mutanti, che muovendosi sott’acqua, urtarono la barca del pescatore temerario e la fecero ondeggiare, incutendogli molto terrore. L'imbarcazione iniziò a tremare, dondolare e il pescatore terrorizzato comprese che la barca stava per capovolgersi e decise di remare verso la costa per tentare di salvarsi. Mentre cercava di fare questo, uno degli esseri bestiali strattonò la barca e fece cadere il pescatore in acqua, dove annegò. Il pescatore solitario prese il coltello dal manico rosso sangue e scuoiò il corpo della vittima accumulando la sua pelle in un contenitore. La pelle delle sue vittime era utilizzata per realizzare delle funi. Successivamente, si diresse verso la sponda opposta all’Isolino Virginia, dove si trovavano delle ghiacciaie ormai inutilizzate dagli abitanti del villaggio lì vicino. Il suo obiettivo, infatti, era quello di portare lì la propria vittima per utilizzarla a scopi malefici.

Era un tranquillo pomeriggio d’autunno, io mi stavo riposando nella mia stanza e le lamentele della mia sorellina continuavano a riecheggiare nella casa vuota, disturbando i miei pensieri. Mamma e papà non c’erano e dovetti quindi andare a controllare cosa fosse successo varie volte, ma ogni volta che mi allontanavo dalla stanza il pianto di Matilda ricominciava.&nbsp; Stanca di sentirla piangere decisi di prenderla in braccio, quando sentii da sotto qualcuno che bussava alla porta: era il mio amico Guglielmo, che abitava dall’altra parte del paese. Mi chiese se avessi voluto andare con lui a trovare Martino. Accettai con entusiasmo la proposta ma subito dopo mi resi conto di non poter lasciare Matilda sola dato che mio padre combatteva nelle crociate e mia madre era morta un anno prima. Non volevo saltare un’uscita con i miei amici e decisi quindi di portare Matilda con me. Dopo essermi assicurata di aver preso tutto il necessario per la bimba, seguii Guglielmo e andammo a casa di Martino e Beatrice che ci stavano già aspettando. Insieme raggiungemmo Isabella che stava ammirando il calare del sole sul grande prato fuori dalle mura, dove ci incontravamo sempre.&nbsp; Dopo una breve camminata, decidemmo di esplorare la sponda opposta del lago perché non l’avevamo mai vista e sembrava esser abbandonata da tutti. Ci mettemmo in cammino alla svelta poiché il sole stava ormai calando e a breve le tenebre avrebbero avvolto il paesaggio.&nbsp; Continuando a seguire il percorso del bosco, rimasi ad ascoltare attentamente i discorsi dei miei compagni. I genitori di Martino, che gestivano una fattoria nei dintorni, stavano cominciando a riscontrare dei problemi per la carestia di grano e in effetti anche a casa mia stavamo affrontando un periodo abbastanza difficile. Alzando lo sguardo verso il cielo notai che la luce del sole stava pian piano calando quando ad un tratto vidi mia sorella voltarsi. Le chiesi velocemente cosa non andasse ma non ricevetti risposta.

Questa non era una prova di coraggio, di forza, di agilità o destrezza con la lama, bensì una prova di modestia e bontà d’animo. Trovato un grande specchio all’interno del castello, Gerardo iniziò a compiacersi, ad ammirarsi e a lodarsi davanti ad esso per via delle prove superate con successo. La vecchia gli indicò di entrare nello specchio per raggiungere il tesoro e riappropriarsene. Gerardo senza esitare un momento, vi entrò accecato dalla cupidigia, senza nemmeno ringraziare l’anziana. Dopo aver toccato con mano le gemme e il tesoro, si voltò verso l’entrata dello specchio, che però era stata murata. Cercò disperatamente di liberarsi, ma ben presto si accorse di trovarsi intrappolato.&nbsp; L’anziana aveva però deciso di rinchiuderlo per sempre poiché lo riteneva un giovane troppo avido, immaturo e indegno di custodire il patrimonio di una famiglia, che al suo tempo era stata importante. Così Gerardo fu condannato a piangere e a soffrire fino alla morte insieme a tutti coloro che prima di lui avevano tentato l’impresa.&nbsp; Si dice che la Rocca Borromea di Angera sorse nei pressi delle rovine di quel castello, su quel colle che guarda da Meridione il lago Maggiore.

Dopo poco si trovarono davanti a un grande muro in pietra; lo affiancarono fino a quando si imbatterono in un massiccio portone. Notarono che esso era leggermente aperto e, dopo aver legato al ramo di un albero&nbsp;le redini dei cavalli, entrarono senza alcuna esitazione. L’ambiente era angusto e polveroso; dal soffitto pendevano ragnatele e sulle pareti erano presenti affreschi rovinati che ritraevano figure macabre. Mentre i ragazzi si addentravano nel corridoio buio, videro passare un lampo di luce abbagliante quasi impercettibile al di fuori di una finestra che mostrava un piccolo giardinetto. Incuriositi, decisero di dirigersi nel chiostro. Sentirono delle voci provenire da un ampio pozzo situato al centro del cortile. Più i due si avvicinavano ad esso, più le voci diventavano forti. Improvvisamente, dal fondo del pozzo provenne una folata di vento fortissima che scaraventò violentemente i due ragazzi a terra. Un po’ storditi dall’impatto della caduta, ci volle qualche minuto perché si riprendessero. Di punto in bianco, dal pozzo sorsero delle ombre oscure che si dirigevano lentamente verso i giovani. I due si guardarono terrorizzati e senza la minima esitazione si misero a correre. Scavalcarono il colonnato e cercarono l’entrata per il corridoio, dopodiché si chiusero la porta alle spalle. All’interno del monastero regnava il silenzio. Era buio e non era semplice ripercorrere i passi fatti in precedenza dal portone d’ingresso, dunque i due ragazzi faticarono a trovare l’uscita.

Si sentivano di nuovo quelle strane voci, che da bisbigli si tramutarono presto in urla, sempre più forti. Qualcosa si stava muovendo sotto di loro: erano le loro ombre che crescevano sempre di più. Capirono che esse erano generate da una luce alle loro spalle. Si voltarono e scorsero un'enorme figura che emanava una forte luce bianca. Lo spirito si mosse verso di loro e li travolse. I due giovani furono accecati dall’enorme bagliore, poi videro solo buio.

IL MISTERO DELLE ACQUE DI SANGUE Michela G., Giulia&nbsp;R., Federico R., Nicolò R., Luca Z.

stomaco. Il dolore che provai era immenso e non avevo nemmeno il fiato per gridare. Ma avevo le forze per guardarli, guardare tutte quelle persone che attorno a me ridevano del mio dolore e della mia morte. Mi accasciai a terra con il sangue che usciva a fiotti dalla profonda ferita e che mi sporcava il bellissimo vestito bianco. L’ultimo ricordo che ho è il dolore atroce che provai con quel pugnale nel mio corpo. Così chiusi gli occhi e non li riaprii mai più fino ad oggi. Non so perché l'abbiano fatto, probabilmente perché appartenevo a una famiglia così importante sulle rive del lago e con un territorio così vasto, nonostante io non avessi nulla a che fare con gli affari di famiglia.- Stefano aveva una faccia da cui trasparivano terrore e disperazione e stava provando una sensazione che non aveva mai provato prima: si stava immedesimando nei panni della ragazza, che a una così giovane età aveva provato un dolore fortissimo. I suoi occhi erano fissi sul fantasma; riuscì a riprendersi solo per pochi secondi, giusto il tempo di realizzare che stava toccando un oggetto che, assieme a chi prima di lui lo aveva posseduto, aveva passato una storia talmente tragica. Preso dall’istinto se lo strappó di dosso e lo butto giù dalla torre, e dopo pochi secondi si sentì un tonfo: era l’amuleto che toccava terra. Stefano era tornato a guardare il fantasma, ma al tonfo dell’amuleto, la ragazza sparì, lasciando Stefano confuso, impaurito e senza parole. Rimase fermo per qualche minuto, cercando di far passare quella sensazione che lo stava tormentando, ma non ci riuscí; non riusciva a pensare lucidamente. Rimase fermo, seduto, al freddo, per ore, fin quando non gli balenò nella mente un pensiero: aveva appena distrutto l’unico ricordo di una ragazza che aveva passato una tragica storia; realizzò che distruggendo l’amuleto aveva distrutto anche il fantasma. Stefano si disperò ancora di più, finché si sporse dalla torre cercando di vedere l’amuleto, senza successo. Stefano non riusciva a sopportare tutto ciò, e così, mentre cercava, si lasciò cadere, chiuse gli occhi e aspettò. Quando li riaprì ebbe un attimo di confusione: si ritrovò con la gamba sanguinante e un fortissimo mal di testa. A primo impatto pensò di essere sopravvissuto alla caduta, ma non vedendo sopra di sé un grande pendio e la torre da cui si era lanciato, capì che tutto quello che gli era accaduto era solo un sogno. Dopo aver realizzato tutto questo, si rese conto che

-Comunque io sono Stefano, piacere.- -Piacere mio. Io sono Angelica. Credo che siano qualche centinaio di anni che non parlo con qualcuno. E nella mia vita precedente mi piaceva molto chiacchierare con le persone. Ti andrebbe di sentire la storia del mio ultimo giorno di vita?- -Veramente…- -Bene!- disse Angelica senza lasciar finire la frase a Stefano e così iniziò a raccontare la sua tragica storia. -Appartenevo a una nobile famiglia lombarda che possedeva quasi tutti i territori sulle sponde del lago Maggiore; questa dimora apparteneva invece a un’altra famiglia con la quale eravamo in competizione e una sera questa famiglia ci invitò a un ballo che aveva lo scopo di riappacificare gli animi, nonostante nessuna delle due sembrava voler cessare il conflitto. La sera del ballo, io e la mia famiglia ci recammo, come d’invito, davanti al palazzo. Scendemmo dalla nostra carrozza e vidi che tutto era addobbato proprio come ci si aspettava per un ballo nobiliare. Passammo dal maestoso portone principale ed entrammo nel giardino colmo di fiori e cespugli. I padroni di casa ci accolsero facendo a tutti molti complimenti, ma con tono sarcastico. Mentre eravamo in giardino, notai alcuni ragazzi, che dovevano appartenere a una famiglia rivale, che mi fissavano. Non mi preoccupai subito e pensai che mi stessero guardando perché piacevo loro. Dopo che i padroni ebbero finito il loro lungo discorso, di aver vantato i propri possedimenti e i loro magnifici figli, ci fecero entrare nella sala principale dove era allestito un fantastico banchetto. Tutti si sedettero e proprio intorno a me, si misero i ragazzi che mi avevano fissato fuori in giardino. La tavola era apparecchiata con stoviglie in argento, il bicchiere in cristallo e una piccola ciotola in ceramica che doveva servire per riporre gli scarti alimentari, il tipico sfarzo di cui si fa uso per far presente all’ospite la propria ricchezza. Le portate erano abbondanti e ognuno era servito da un cameriere, che portava da mangiare e da bere. Quando tutti ebbero finito di mangiare e i camerieri ebbero finito di portare via le stoviglie sporche, tutte le famiglie nobili si poterono alzare dalla tavola. La famiglia a cui apparteneva il palazzo ci scortò nella sala da ballo dove, come da tradizione, aprirono la festa i padroni di casa. Ballarono divinamente, spostandosi da un angolo della sala all'altro.

Senza esitazione Martino mi tirò fuori dicendomi che domani all'alba sarebbe venuto lui stesso a recuperarla ma in quel momento avevamo bisogno di lasciare la palude e trovare gli altri. Ma io rimasi lì, paralizzata, incapace di pensare e di muovermi. Il mondo intero si era zittito, congelato, senza alcun senso. L’attimo prima c’era, l’attimo dopo non c’era più. Martino mi strattonava dolcemente e continuava a parlarmi, ma io non lo sentivo. Avevo lo sguardo fisso sulla mia povera sorellina. Poi la vista si offuscò, gli occhi si colmarono di lacrime e lo stomaco si riempì di sensi di colpa. Iniziai a piangere e a urlare, non poteva essere successo davvero, solo quel pomeriggio era nella sua stanzetta a giocare. Era un incubo. E io aspettavo solo che qualcuno mi svegliasse, ma non accadde. Martino mi trascinò via, fino al fuoco che avevamo acceso poco prima, cercando di riportarmi alla realtà, ma io con la mente ero rimasta su quella sponda del lago dalla mia amata sorellina. Mi fece sedere e mi rimase accanto fino a quando mi addormentai piangendo, stremata, al calore del fuoco. Urla. Lupi. Urla. Era Matilda ad urlare, urlava qualcosa...urlava il mio nome. Mi svegliai di soprassalto spaventata e sudata. Era tutto un incubo, e speravo che lo fosse anche l’avventura nel bosco, ma mi guardai attorno e capì che non lo era. Martino dormiva sdraiato al mio fianco, la luna era ancora alta nel cielo, doveva essere notte fonda. Rimasi incantata a guardare le fiamme danzare e diminuire: si stavano per spegnere. Presi dei legnetti e li gettai nel fuoco, poi all'improvviso la sentii: una voce, la voce di una bambina, la voce di Matilda che, calma, mi chiamava. Quel dolce suono riecheggiava nel bosco buio e inquietante. Cominciai a cercarla tra gli alberi, chiamandola, ma la sua voce altro non diceva che il mio nome. Martino si svegliò per le mie grida e si alzò appena in tempo per starmi dietro, mentre io mi inoltravo, correndo, nella foresta.

Continuavo a cercare di capire da dove veniva la voce finché a un certo punto qualcosa cambiò: non era più la voce di Matilda, era un suono diverso...erano i richiami di Beatrice e Isabella. Non le riconobbi subito ma la luce negli occhi di Martino mi confermò che erano veramente loro.&nbsp;Una volta tutti riuniti cominciammo a cercare una via per il ritorno ma tra il buio e la stanchezza era veramente difficile.&nbsp; All'improvviso Guglielmo avvistò una luce piccola e debole in mezzo alla nebbia. Gli andammo incontro un po’ esitanti e quando fummo a pochi passi udimmo la voce profonda e burbera di un uomo: -Chi siete? Cosa ci fate qua?- chiese. Martino spiegò la nostra situazione e l’individuo, vedendoci sconvolti e spaventati, ci offrì riparo nella sua piccola capanna. L’uomo si scoprì essere molto gentile, ci fece accomodare nella sua piccola capanna e ci portò del pane da mangiare e del succo da bere. Inizialmente trovammo strano che avesse tutto quel pane nonostante il periodo di carestia ma eravamo tutti troppo sconvolti e affamati per porci domande e dubitare di quell'uomo. Dopo che ci fummo saziati gli chiedemmo in quale parte del lago fossimo e che strada avremmo dovuto prendere per tornare al villaggio. Egli ci rispose che al sorgere del sole ci avrebbe accompagnati lui stesso. Ci sentimmo subito sollevati.&nbsp;Ci addormentammo tutti e cinque in pochi secondi, per l’ultima volta. Nessuno di noi si risvegliò più.&nbsp; Il boscaiolo ci aveva avvelenati servendoci un succo di bacche velenose che ci costarono la vita. Questa fu per noi la notte fatale.&nbsp;

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