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Un cuore di Gioia

by Silvia Quaglia

Pages 2 and 3 of 15

UN CUORE DI GIOIA
Alessandro Saja
1A Scuola secondaria Marcallo
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“Ehi Dino, passami la palla! Sono qui!” Gridò Gilberto cercando di attirare l’attenzione di Dino.
“Non so se tirartela, ho paura che Zelda me la possa prendere e io non voglio andare al centro a fare il maialino!” spiegò Dino.
“Provaci Dino! Non importa se Zelda la prende o meno, l’importante è che ci hai provato!” Lo incoraggiò Gilberto.
“Ok, mi hai convinto” disse Dino “Come al solito…” sussurrò a denti stretti e un attimo dopo lanciò la palla con tutte le forze che aveva.
“Ragazziiii! Forza è ora di ritornare nelle vostre stanze. Sta per passare il dottore per il controllo pomeridiano.” li richiamò con la sua voce dolce e squillante l’infermiera Susi.
“Salvato da un’infermiera!” esclamò Dino “Avevo fatto un tiro pessimo e Zelda ovviamente l’ha intercettato.” continuò con tono sollevato.
“L’avrei presa comunque, nanerottolo!” ribatté la ragazzina.
I tre amici si incamminarono verso l’ingresso dell’ospedale, passando accanto ad alberi spogli e aiuole prive di colore; come ogni pomeriggio, presero le scale invece dell’ascensore, come a voler rimandare qualcosa alla quale comunque non potevano sottrarsi, ossia tornare nella loro camera nel reparto di cardiochirurgia pediatrica. Le stanze non erano grigie, spoglie e asettiche come si potrebbe pensare; alle pareti c’erano foto, poster, disegni colorati di ogni tipo; i murales, realizzati da artisti più o meno famosi, catapultavano i piccoli pazienti in mondi fantastici: ci si poteva immergere nei coloratissimi fondali marini della barriera corallina per poi girare l’angolo e ritrovarsi su una mongolfiera in volo sopra Parigi. 
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Quando arrivarono nella stanza il dottore li stava aspettando: “Buonasera ragazzi, come stiamo oggi? Va tutto bene? Avete giocato ancora a Maialino al centro?”
“Siiii!” Risposero in coro Zelda e Gilberto con le guance arrossate e il fiato corto.
“Tutto bene? Come stiamo oggi? Ma che razza di domande sono mai queste?! Ho 9 anni, dovrei essere a scuola o in palestra ad allenarmi con la mia squadra di basket, vorrei mangiare un gelato al pistacchio anche se fuori ci sono 10°C, e invece sono qui, in questo immenso ospedale, in attesa di un cuore nuovo perché il mio fa i capricci. Nessuno sa dirmi quando potrò tornare a casa da mamma e papà e tu mi chiedi se va tutto bene??!” pensò Dino con quello sguardo perennemente imbronciato e che ormai tutti conoscevano.
“Mah, insomma… avrei preferito starmene in giardino piuttosto che tornare in questa stanza piena di oggetti strani che ovviamente non sono dei giocattoli…” brontolò ad alta voce Dino. “Ma se fino a qualche minuto fa eri “felice” di tornare in camera per non dover fare il maialino” ribatté ridendo Gilberto. Zelda nel frattempo si era sdraiata nel suo letto, allungando una mano verso il suo comodino, aveva afferrato l’ultimo regalo di suo padre, “Assassinio sul Nilo” di Agatha Christie. Lei, appassionata lettrice di gialli, l’avrebbe divorato in un paio di giorni; il padre le aveva promesso che sarebbe guarita e avrebbe lasciato l’ospedale giusto in tempo per l’uscita del remake nelle sale cinematografiche e ovviamente Zelda non faceva che sognare quel momento. Si immaginava seduta al centro della grande sala, con in grembo il suo libro, sentiva il cuore battere forte dall’emozione e poi… le luci si spengono, sullo schermo appare il grande e maestoso fiume Nilo reso dorato dalla luce del tramonto, i papiri lungo le sponde danzano leggeri seguendo la brezza della sera, delle piccole imbarcazioni scivolano lente su queste acque che hanno visto susseguirsi nei secoli re e regine, faraoni e sacerdoti dediti al culto degli dei…
“Bene Zelda, stai migliorando, non così velocemente come avevamo pensato, ma i tuoi esami vanno sempre meglio” le confermò il giovane chirurgo che l’aveva visitata senza che lei se ne accorgesse da quanto era assorta nei suoi pensieri.
“Come? Ah sì, grazie” rispose Zelda distrattamente.
Fu poi il turno di Gilberto che, come un bravo soldatino ubbidiente, esegue sempre gli ordini senza lamentarsi, senza discutere, sempre con un sorriso sulle labbra perché “la fiducia nei dottori è un passo verso la guarigione” non si stancava mai di dire.
Infine toccò a Dino essere auscultato.
“Dulcis in fundo” mormorò Gilberto lasciandosi scappare una breve risata.
“Ah Ah ah..” rispose ironico Dino. “Non so te come fai, ma io sono arci stufo di stare qui!”
“Ragazzi non cominciate, vi prego. Tornerò più tardi a farvi visita” e così dicendo il dottore presa la porta e se ne andò. 
 I tre amici scesero al piano inferiore per la cena perché, salute permettendo, in questo ospedale, per i piccoli pazienti c’era anche una mensa, non erano obbligati a mangiare in camera.
“Ma, cosa è successo alla nostra mensa?” domandò Gilberto guardando incredulo la stanza vuota.
“Oggi ragazzi ci sono degli ospiti molto speciali che arriveranno a breve.” rispose Margaret, la cuoca dall’accento francese, mentre spostava l’ultimo tavolo rimasto.
“Chi sono questi ospiti che non mi faranno mangiare?” chiese Dino arrabbiato.
“E’ una sorpresa Dino e poi stai tranquillo che mangerai.” gli rispose Margaret con un dolce sorriso che però non servì a rincuorarlo.
Nel frattempo stavano arrivando altri bambini ospiti dell’ospedale e tutti ovviamente si stavano chiedendo che fine avessero fatto tavoli e sedie. Ad un tratto, su un palco installato per quell’occasione, comparve una persona (uomo o donna non si poteva capire) seguito da un gruppo di altre cinque persone: tutti indossavano delle tute bianche e il viso era coperto da un casco con una visiera reticolata.
“E questi chi sono? Tu che sai tutto… Astronauti?” domandò ironicamente Dino a Gilberto.
“Spiritoso. Sono certo che non sono alieni” ribatté sarcastico Gilberto.
Quello che stava a capo del piccolo corteo sembrava essere il capo, si mise davanti a un microfono montato su un’asta e finalmente si sfilò il casco: era un ragazzo di 30 anni o poco più, capelli nero corvino, brillanti occhi verdi, pelle abbronzata, un piccolo diamante risplendeva sul suo lobo sinistro; la tuta che indossava era abbastanza aderente da far risaltare i suoi muscoli che non erano eccessivi, esplosivi come chi frequenta le palestre e passa ore a sollevare pesi, ma comunque erano tutti ben definiti.
Alcune pazienti, dell’età di Zelda o poco più, erano già imbambolate, incantate e rapite da quegli occhi meravigliosi e da quel sorriso smagliante.
 “Buonasera ragazze e ragazzi! Noi siamo gli schermitori della squadra di Firenze e siamo lieti di comunicarvi che oggi insegneremo ai bambini ricoverati in quest’ospedale le basi della scherma. Io sono il coach Dopkins e questi che vedete alle mie spalle, sono i miei allievi migliori.”
Un potente grido di eccitazione uscì dalle bocche dei giovani pazienti; Giberto, Dino e Zelda si diressero verso un tavolo allestito per la consegna dell’attrezzatura: tute, caschi e ovviamente le armi di questo affascinante sport, il fioretto e la sciabola. Quando tutti furono pronti, formarono un cerchio intorno al coach Dopkins che iniziò a spiegare le basi della scherma.
“La scherma è una disciplina olimpica, consiste nel combattimento leale tra due contendenti armati di spada, fioretto o sciabola. Lo sport trae origine dall'arte marziale chiamata scherma tradizionale. La parola scherma deriva dal longobardo 'Skirmjan' che significa proteggere, coprire e infatti la spada era nata per difendere e non per colpire. Lo scopo è quello di 'toccare' il vostro avversario prima che lui 'tocchi' voi; tenete le gambe leggermente divaricate e fate piccoli passi per avvicinarvi all’avversario, infine cercate di colpirlo.
Tutto chiaro? Adesso dividetevi in gruppi da tre o quattro e provate a mettere in pratica le cose che vi ho appena spiegato. Io e i miei allievi verremo ad aiutarvi. Divertitevi.” 
Zelda, Gilberto e Dino si misero in un angolo della sala e iniziarono a duellare.
“Wow! Dino sei fortissimo, io e Zelda non riusciamo a colpirti.” disse Gilberto tutto entusiasta.
“Il tuo amico ha ragione, sei molto bravo, pratichi la scherma?” chiese uno degli allievi.
“N-no” balbettò Dino timidamente che per la prima volta non sembrava essere di cattivo umore."
“Coach, venga a vedere il piccolo Dino! Credo sia un talento naturale.”
 “Ma tu sei un vero fenomeno!” esclamò il coach Dopkins “Dovresti venire a fare scherma nella nostra squadra. Come ti chiami? Quanti anni hai?”
“Dino, mi chiamo Dino e ho 9 anni; ma, a dir la verità, io gioco a basket” rispose arrossendo. 
“Però sì, mi piacerebbe far parte della vostra squadra, ma non so quando uscirò da questo meraviglioso castello!” aggiunse con il suo solito tono sarcastico.
“Ecco tornato il vecchio Dino” sussurrò Zelda all’orecchio di Gilberto.
“Perfetto!” aggiunse il coach. “Sono sicuro che ci vedremo presto.”
Entusiasti di come era andata la giornata, i tre amici tornarono in camera, gustarono la loro cena e poi Gilberto, poggiando la testa su un paio di cuscini, chiuse gli occhi, mise le mani in grembo e come ogni sera cominciò a narrare le vicende degli Dei e di antichi eroi. La sua voce era calda, aveva il potere di trasportare indietro nel tempo i suoi compagni di stanza che lo ascoltavano sempre incantati.
Il più delle volte Dino si addormentava prima della fine della storia, dei tre era quello che spendeva più energie, mentre Zelda non avrebbe mai voluto che Gilberto finisse di raccontare.
Erano tre ragazzini completamenti diversi l’uno dall’altra, ma questo li aveva uniti invece di allontanarli: ognuno donava all’altro qualcosa di unico e prezioso, la loro amicizia era nata in una stanza di questo ospedale, ma a vederli si poteva pensare che fossero amici da sempre, fratelli addirittura.
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