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La lieta brigata

by SAMUELE VICARIO

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LA LIETA BRIGATA
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Decameron - Giovanni Boccaccio
LA "LIETA BRIGATA"
Decameron, Introduzione alla prima giornata
riscrittura di Aldo Busi
Quando la nostra città era ormai quasi vuota, accadde (l’ho sentito io stesso da per sona degnissima di fede) che un martedì mattina nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella si ritrovassero sette ragazze a assistere con pochissimi altri all’offizio divino, tutte vestite a lutto come andava a pennello in un tempo tanto funebre. Fra di loro c’erano legami di amicizia o di buon vicinato o di parentela, nessuna che avesse compiuto i ventotto anni né fosse minore di diciotto, tutte di spiccata intelligenza, perbene e di belle fattezze, costumi impeccabili e mirabile integrità di carattere. [...]
La prima, quella più su con i suoi anni, la chiameremo Pampinèa e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, Lauretta la quinta e Neifile la sesta e l’ultima Elissa – questa era appena stata piantata dal moroso.
Queste magnifiche sette si ritrovarono in un angolo della chiesa senza uno specifico proposito; una dopo l’altra si erano messe a sedere quasi in cerchio, in un silenzio cadenzato solo dai sospiri, visto che nessuna recitava più il rosario. Si ritrovarono a parlare del più e del meno, così, quando improvvisamente cadde di nuovo il silenzio, Pampinèa disse: «Care le mie ragazze, anche voi come me avete spesso sentito dire che non si fa del male a nessuno a usare la testolina, visto che ne abbiamo una: è legge di natura che ogni essere umano, una volta venuto al mondo, aiuti, conservi e difenda la propria vita, o no? Legge spietata finché si vuole, al punto che più di una volta, per difenderla, si sono accoppati degli innocenti, ma così è. Se le leggi, nel cui rispetto è bene che viva ogni persona, contemplano questo, contempleranno pure che se noi ci daremo da fare per trovare dei rimedi leciti per preservare la nostra vita, non faremo del male a nessuno. [...]
A noi non mancano né la salute né i mezzi né un posto per andarcene via. Un sacco di gente, che ha risorse economiche come noi, non fa più nessuna distinzione fra cose oneste e cose disoneste, o si limita a quelle che soddisfano i suoi appetiti: soli o accompagnati, fanno tutti i loro porci comodi. Non soltanto quelli liberi da voti religiosi, ma persino quelli racchiusi nei monasteri hanno gettato alle ortiche anche la mutanda
insieme alla tonaca, inducendosi a credere che, se sta bene agli altri, sta bene anche a loro e, infrante le leggi dell’abnegazione, alzano il sano davanti e dietro nell’idea che l’unica maniera di scampare sia trasformare gli altari in postriboli. Se le cose stanno così – e stanno così – che ci stiamo a fare noi qui? che aspettiamo? che sognamo?
perché siamo più pigre e in differenti alla nostra salute degli altri cittadini? abbiamo forse perduto ogni rispetto per la nostra vita? o ci illudiamo che, tanto, la vita è legata al nostro corpo con catene talmente resistenti da non doverci preoccupare di niente, che niente può ingiuriarla o strapparcela? ma dico, stiamo dando i numeri? Neanche le oche pensano così. Se volessimo star lì a fare la conta di quanti siano stati i ragazzi
e le ragazze falcidiati da questa crudele pestilenza, non la finiremmo più. [...] Non so se sarete d’accordo, ma secondo me sarebbe tanto bella pensata se, come tanti altri prima di noi, ce ne andassimo lontane da questo posto e dagli esempi infami che vediamo dappertutto. Potremmo andare a stare nelle nostre ville di campagna: ognuna di noi possiede almeno una tenuta e, una volta là, potremmo ritrovare quella festosità,
quell’allegria, quel piacere di vivere che abbiamo perso, senza con questo fare mai niente per oltrepassare il senso della misura.
Là si sentono cantare gli uccellini, le colline sono verdi, i campi e le pianure ondeggiano di messi come un mare, ci sono tanti alberi e puoi guardare il cielo a perdita d’occhio: sarà anche crucciato, ma non per questo ci vorrà negare le sue bellezze eterne, molto più belle da rimirare che non le mura vuote della nostra città. [...]
Perciò appena sarete pronte, prenderemo su le nostre domestiche e ci faremo seguire con tutto il necessario: cambiamo aria, prendiamoci quel po’ di allegria che le circostanze possono darci, questo sì che è il biglietto vincente!9 Il nostro dovere è di tirare avanti fino a vedere, se non moriremo prima, la fine di questo incubo».Le ragazze non solo scoppiarono in un applauso ma, prese dall’entusiasmo della partenza, erano scattate in piedi.
[Filomena espone una critica al discorso di Pampinèa: è utile, a suo giudizio, che il loro gruppo di ragazze sia guidato da qualche uomo. Purtroppo però, aggiunge Elissa, i loro uomini sono tutti morti: e dunque, come fare? Sarebbe sconveniente farsi accompagnare nel contado da
sconosciuti. A questo punto entrano in chiesa tre giovani (Pànfilo, Filòstrato, Dionèo) che vengono informati del progetto delle ragazze e decidono di unirsi a loro.]
L’indomani mattina, all’alba del mercoledì, le ragazze con le loro domestiche e i tre giovani con tre servitori uscirono dalla città e, dopo un paio di chilometri, arrivarono sul posto, già sistemato in precedenza e pronto a accoglierli. Questo luogo si trovava su una collina costellata di arbusti e piante verdeggianti, distantissima da ogni via di comunicazione; sul cocuzzolo c’era un palazzo con un gran bel cortile al centro e con
logge tutt’intorno, e sale e camere bellissime e differenti l’una dall’altra, tutte decorate da affreschi ragguardevoli.
Il palazzo era circondato da praticelli e giardini meravigliosi
con zampilli di acqua freschissima; un’arcata della cantina era occupata fino al soffitto da otri di vino prezioso, cosa più adatta a dei diligenti bevitori che non a delle ragazze sobrie e costumate. Una volta sistematasi, la brigata constatò che tutto era stato spazzato alla perfezione, che i letti erano stati rifatti per bene e che ovunque trionfava un’abbondanza di fiori di stagione e di rami di giunco. Si misero subito a sedere e Dionèo, che era quello più spiritoso, disse: «Bambinelle, è il vostro buon senso che ci ha portati qui, noi non ne abbiamo alcun merito. Io non so quello che in tendiate fare con i vostri pensieri, ma io i miei li ho lasciati alle spalle non appena ho varcato la porta della città. Perciò, o vi mettete di buona lena a divertirvi ridendo e cantando con me o mi licenziate perché torni a riprendere i miei pensieri dove li ho lasciati e me ne stia nella nostra disgraziata città».
Pampinèa, che aveva cacciato via i suoi né più né meno di Dionèo, rispose tutta frizzante: «Ben detto, Dionèo: dobbiamo vivere a cuor contento, perché questo è il proposito che ci ha fatto fuggire da dove eravamo. Ma poiché le cose che non hanno un loro stile non possono durare a lungo, io, che sono stata la responsabile del nascere di que-
sta bella compagnia, penso che per prolungare la nostra gioia sia necessario scegliere e onorare un capo al quale ubbidire, il cui compito sia quello di inventare per noi come vivere spensieratamente. Al fine che ciascuno a turno provi a fare il capo e il suddito, perché fra di noi non nasca alcuna invidia, propongo che a ognuno, giorno dopo giorno, si attribuisca il compito di inventare una felicità e il piacere di trovarsela
inventata.
Sia affidato alla comune scelta chi debba essere il primo. Quanto a quelli che seguiran no, la scelta verrà fatta all’ora del tè da chi avrà avuto quel giorno la reggenza, e costui o costei sceglierà il luogo e il modo dove e come vivere e disporrà dell’andamento generale».
Questo discorso piacque enormemente a tutti e in coro elessero lei regina del primo giorno [...].
[Tutti vanno a passeggiare in un giardino, poi si dispongono al pranzo, che viene servito in modo inappuntabile. Dopo il pranzo seguono canti e danze, fino a sera. Quindi, secondo l’ordine impartito da Pampinèa, i giovani e le giovani si ritirano, ciascuno nella propria stanza.
L’indomani...]
Erano appena suonate le tre che la regina, levatasi, fece chiamare ragazze e ragazzi, dicendo che non faceva bene poltrire troppo di giorno, e se ne andarono in un praticello d’erba verde e alta dove il sole non batteva da nessuna parte e qui, nella brezza di un venticello, la regina fece cenno di disporsi tutti in cerchio sull’erba, dicendo:
«Come potete vedere, il sole picchia forte e fa un caldo boia. Solo le cicale hanno fiato per barcamenarsi fra gli ulivi. Sarebbe da sciocchi spostarsi adesso da qualche parte col caldo che fa. È bello stare qui al fresco e abbiamo tavolieri e scacchiere, se ci va di giocare. Secondo me, invece di giocare [...], potremmo raccontare delle storie per dimenticarci di quest’afa, il che, con l’inventiva di uno, può divertire tutti gli altri. Non avrete finito di dire una storia ciascuno che il sole sarà calato e con lui la calura, e poi potremo andare a passeggiare.
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