C'è ancora speranza

Una traccia d'inchiostro per dare voce agli umili

Tuttavia, alcune persone sviluppano una forma di malattia grave e necessitano di assistenza sanitaria. O almeno, questo adesso, dopo 3 mesi dall'inizio. Le prime settimane furono devastanti. Le persone che contraevano il virus morivano come mosche e, non avendo una cura, non potevamo farci niente. Era il caos più totale. Il virus può diffondersi in piccole particelle liquide che fuoriescono dalla bocca o dal naso di una persona infetta, ad esempio tossendo, starnutendo, parlando, cantando o semplicemente respirando. Si può contrarre l'infezione respirando il virus se ci si trova nelle vicinanze di una persona affetta da covid-19, oppure toccando una superficie contaminata e poi toccandosi gli occhi, il naso o la bocca.

Il virus si diffonde più facilmente al chiuso o in ambienti affollati. E anche se il mondo andò in lockdown, la vita di noi medici dovette continuare. Dormivamo nelle ambulanze, abbandonati sulle scrivanie, imprigionati nelle tute protettive, con i segni degli occhiali che non andavano via neanche una volta tolti. Eravamo sottoposti a turni massacranti, eravamo pochi, o comunque meno di quanti ne sarebbero serviti, con meno letti e strumenti del necessario. Oltre che medico ero anche ricercatrice, quindi il mio primo pensiero fu un ipotetico vaccino. Ci lavoravo giorno e notte insieme ad Emily e Daniel. Una ragazza e un ragazzo di 27 anni che avevano dimostrato prestazioni eccellenti durante il tirocinio.

Mi stavo dirigendo verso la sua stanza, la numero 258, per dei soliti controlli, ma appena arrivai due figure visibilmente irritate e stanche mi si pararono davanti. «Quindi? Come sta mio figlio? Come vanno le ricerche?» disse la povera madre stanca. Nella sua voce si poteva percepire disperazione e preoccupazione. «Signori, le ricerche stanno procedendo per il meglio, vostro figlio riuscirà a farcela, ve lo assicuro». Ormai tra noi medici queste parole erano diventate una routine, ma in pochi ci credevano, soprattutto all'ultima parte. «Ormai tutto questo va avanti da mesi, ci ha presi per scemi? Come sta veramente nostro figlio?» rispose aggressivamente un padre nervoso e seccato.

«Signore, so che tutto questo è difficile e stancante» «Lei non sa niente, gira tra una stanza all'altra dicendo alle persone che andrà tutto bene, ma a noi scivolano addosso, vogliamo i fatti!» mi interruppe di nuovo il padre che sembrava agitarsi sempre di più «Purtroppo la situazione è più complicata del previsto, ci sono tante persone, soprattutto anziane, che hanno bisogno di essere curate al più presto, mentre vostro figlio è giovane e, anche se con più fatica, riuscirà a riprendersi». «Sa quanto me ne può importare delle persone anziane, tanto hanno già i giorni contati, mio figlio ha tutto un futuro davanti e la riterrò responsabile in caso non dovesse farcela!»

«Senta, intanto le chiedo di calmarsi e di portare rispetto a tutte le persone che in questo momento si trovano nella stessa situazione di suo figlio. Anche io tengo molto a Thomas e di certo farò qualsiasi cosa per salvargli la vita, ma al momento ho le mani legate, quindi per favore, se non vuole che suo figlio muoia adesso, mi lasci passare». Per fortuna la donna, più comprensiva e gentile, convinse il marito a farsi da parte e io potei finalmente passare. Avrei dovuto sentirmi offesa, arrabbiata, magari avrei dovuto avere le lacrime agli occhi, ma no, niente di tutto questo si impossessò del mio cuore. Capivo l’uomo e, per quanto si fosse spinto oltre con le parole ferendo il mio orgoglio, non gli potevo dare la colpa di niente. Gli stessi dottori che all’inizio gli

avevano detto che suo figlio aveva solo un virus sconosciuto passeggero, adesso erano costretti a trovare scuse e motivazioni sul perché lo stesso ragazzo, invece di stare a casa con la sua famiglia, fosse intubato, con la sua vita nelle mani di una macchina. Gli stessi dottori che gli avevano detto che non c’era assolutamente nulla di cui preoccuparsi, adesso si preparavano all’eventuale perdita del ragazzo. Un virus che nessuno aveva preso sul serio all’inizio, avrebbe potuto togliere un figlio dalle braccia di un genitore. Voglio dire, io stessa ero arrabbiata per tutto questo, figuriamoci suo padre. Sarebbe stato grave se non gliene fosse importato niente della sua situazione. Forse questa sua rabbia e preoccupazione mi davano anche sollievo, il fatto che avessero a cuore loro figlio mi confortava.

Lei non era estremamente alta, all’incirca 1,70 cm, e aveva un fisico abbastanza snello, era sempre stata severa con se stessa e seguiva una dieta rigidissima che solo a pensarci mi veniva fame. Aveva dei bellissimi capelli rossi, da qui il soprannome “carota”, leggermente ondulati che le arrivavano all’altezza delle spalle. Occhi verdi che sembravano due smeraldi, sulle guance aveva spruzzate lentiggini qua e là. Una delle ragazze più belle che avessi mai visto, portava sempre dei jeans stretti alla vita e magliette larghe, soprattutto le maniche. Era una ragazza gentile e tranquilla dalla mente brillante, e aveva sempre e dico sempre una soluzione a tutto; amava quello che faceva e si vedeva. Poi c’era Daniel, un ragazzo scorbutico e arrogante, che non si scomodava tanto a fare il suo lavoro al contrario di Emily.

Con il suo metro e novanta di altezza se ne stava sempre da qualche parte annoiato a fare quello che gli veniva detto. Anche lui seguiva una dieta abbastanza rigida e si allenava continuamente. Capelli corvini e oceani al posto degli occhi, origini filippine, era davvero un bel ragazzo. Io ero sempre stata nella media invece: altezza media, fisico medio, intelligenza media, capelli castani e occhi ambrati. Niente di speciale. Da quando Thomas era entrato nella mia vita, il vaccino, una cura, una soluzione, un qualsiasi cosa erano diventati la mia priorità. La sua condizione peggiorava ogni giorno di più. Da un semplice infetto era passato ad essere intubato e il suo corpo ormai stava cedendo. Le ricerche stavano andando bene, pian piano ci stavamo riuscendo.

C'è ancora speranza

Editrice Scuola Secondaria di I Grado "Colombo" 3A

Essendo cresciuta in una famiglia menefreghista e fredda nei miei confronti, avrei odiato lo stesso comportamento da parte dei genitori del ragazzo. Meglio essere insultata a questo punto, mi ripetevo, sperando che questo mio ragionamento avesse un qualche senso. Le settimane passarono e il ragazzo non sembrava avere intenzione di migliorare e la situazione era diventata insopportabile. Ricevevo insulti e minacce dai genitori e vidi decine e decine di famiglie crollare al mio «Non ce l'ha fatta, condoglianze». Non vedevo la mia di famiglia da un tempo che sembrava infinito. E quel ragazzo non si riprendeva, non migliorava, e le ricerche non portavano a niente.

Ogni volta che appariva un po' di luce, migliaia di nuvole nere la coprivano. La speranza c'era, però. Perché quando stavo notti insieme ad Emily per cercare nel nulla un qualcosa, io ci credevo. Daniel era scettico, lo era sempre stato, lui non ci credeva, lo capivo da come aiutava me ed Emi, dalla superficialità con cui lo faceva, dalla noncuranza che ci mostrava. Ma come biasimarlo, era stanco e non aveva mai voluto fare davvero il medico, i suoi genitori lo avevano voluto per lui, ma la vedevo la scintilla nei suoi occhi ogni volta che si parlava di legge. E chissà se la speranza si era accesa in lui quando sentimmo Emily gridare «Ce l'abbiamo! Il vaccino ce l'abbiamo!»

Era sera. Avevo perso il conto delle ore da molto tempo ormai. L'ospedale era completamente affollato, infermieri che correvano da una parte all'altra dell'edificio e io a malapena sapevo dove dovevo andare. In verità lo sapevo benissimo, ma l'agitazione giocava brutti scherzi. Anche perché l’ospedale era decisamente grande e ci si perdeva facilmente tra quei corridoi bianchi e spogli, ma sempre pieni di gente, soprattutto nell’ultimo periodo. Qua e là, sui muri, era attaccato qualche disegno fatto da dei bambini durante i vari eventi di beneficenza. Sei piani pieni di stanze sempre occupate da pazienti e dottori. Qualche anno prima che io iniziassi a

lavorarci ci fu un terribile incendio che tolse la vita ad un centinaio di persone tra fumo, ustioni e crolli di corridoi o scale. Infatti, adesso le porte d’uscita d’emergenza sono sparse un po’ ovunque e gli allarmi antincendio sono sempre all’angolo. Lavoravo in quell'ospedale da cinque anni che, tra alti e bassi, erano passati tranquillamente. Eppure l'ultima settimana di febbraio fece iniziare uno dei periodi più brutti e sofferenti che abbia mai dovuto affrontare. Vedevo ogni singolo giorno persone lottare, guarire e morire a causa di un virus, il SarsCoV2. I primi casi li avevamo presi tutti sottogamba, ma pian piano la situazione si era aggravata sempre di più. La maggior parte delle persone che contraggono il virus sviluppano sintomi lievi o moderati e guariscono senza avere bisogno di cure particolari.

A tutte le persone che hanno fatto di tutto per salvaguardare la nostra sicurezza durante la pandemia.

... grazie dal profondo del cuore, il mondo vi è riconoscente.

Janna Pocitaru, nata a Milano il 15 maggio del 2008, fin da quando era piccola ha sempre avuto una smisurata passione per i libri e le storie. Sta continuando il suo percorso scolastico col desiderio di intraprendere un percorso umanistico. "C'è ancora speranza" è una delle sue prime opere. La ragazza, anche se molto giovane, sta già riscontrando un forte successo e, seppur sia solo all'inizio della sua carriera da scrittrice, promette grandi cose.

Nadine Grandson, conclusi gli studi, si trova alle prese con l'arduo lavoro del medico e, in generale, con la vita. Relazioni, amicizie e sentimenti non erano mai stati il suo forte per tanti motivi. La sua indifferenza l'aiutava nel suo lavoro, l'aiutava a gestire il dolore. Eppure la vita è imprevedibile e da un giorno all'altro potrebbe catapultarti nel mezzo di una pandemia, che ti sconvolgerà la vita e rovinerà tutti i tuoi piani. "L'errore" più grave per un medico: affezionarsi ad un paziente. Ma alla fine "errare è umano", e umana lo è anche Nadine.

2022 Editrice Scuola Secondaria I Grado "Colombo" 3A

"Non bisognerebbe mai dare niente per scontato, neanche le cose che consideriamo più abitudinarie: una parola, un abbraccio, una passeggiata... La vita che stiamo vivendo ora ce lo sta insegnando."

E chissà se la speranza si era accesa in lui quando vedemmo decine e decine di famiglie piangere lacrime di gioia abbracciate ai loro cari. E chissà se la speranza aveva riempito anche un solo pezzo del suo cuore. Però quando potei finalmente dire ai genitori di Thomas che il ragazzo si stava riprendendo, la speranza nel mio di cuore non fu mai più viva di così.

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