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Mediterraneo Racconti di viaggio parte 7

by Isabella Mecarelli

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Isabella Mecarelli
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MEDITERRANEO
Racconti di viaggio
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7^ Puntata
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COMEN Conferenza Mediterranea
Associazione Internazionale
Nello Mzab
Partendo da El Golea, al momento di congedarci dal ragazzo algerino che ci aveva guidato sulla tomba di Padre de Foucauld, ci scambiammo l’indirizzo perché aveva manifestato un forte interesse ad intrecciare una corrispondenza con noi. In seguito ci avrebbe inviato con assiduità, divenuta sempre più assillante, pacchi di datteri, chiedendoci in cambio vari oggetti facilmente reperibili da noi, per quanto costosi; ma addirittura preziosi per gli abitanti di un’oasi, quali palloni da football, scarpe Adidas ed altri articoli sportivi, particolarmente ambiti perché impossibili a trovarsi nel deserto algerino. Per un po’ lo accontentammo soddisfacendo le sue richieste, finché il rilancio non divenne troppo esagerato. Conservo ancora le sue lettere, in cui, facendosi via via più esigente (sempre dietro compenso di datteri) si augurava di ricevere altre scarpe griffate Adidas e varie preziosità. A quel punto mi vidi costretta a troncare il rapporto.   

Sostammo di nuovo al pozzo Guiret Moussa che tanto ci aveva ristorato all’andata. Stavolta però non eravamo soli: un camionista era venuto a riempire la cisterna del suo mezzo (capimmo allora l’utilità di un tubo dell’acqua così alto). Con quel serbatoio avrebbe rifornito d’acqua gli abitanti delle piccole oasi dei dintorni.
Quel giorno consumammo in una breve sosta un più che frugale pasto a base di pane e sardine. A pomeriggio inoltrato entrammo nella regione dello Mzab, abitata da una setta musulmana, gli ibaditi, che rifugiatisi in questa zona al tempo delle persecuzioni religiose, fondarono una serie di città, la più importante delle quali è Ghardaia. Si tratta di un ramo moderato dei kharigiti, che prende nome dal suo fondatore, Ibad, e l’area del loro insediamento costituisce un’enclave piuttosto chiusa.

La popolazione dello Mzab usa l’arabo per scrivere, ma parla vari dialetti berberi; i suoi centri conservano ancora un forte carattere religioso, perché la gente qui è particolarmente attaccata alle sue tradizioni culturali e conserva un carattere fiero e indipendente. 
Scegliemmo di sostare proprio a Ghardaia, capoluogo della regione. Fu una breve visita che ci permise di ammirare le sue graziose stradine, ricche di colore. Ma siccome i Mozabiti proteggono le loro città sante dagli stranieri imponendo divieti, nella parte vecchia era proibito fotografare; e anche se sulla strada nazionale sorgevano parecchi negozi, evidentemente dedicati ai turisti, quando si entrava nel cuore della città, non si era accolti con particolare entusiasmo.

Al momento di contrattare per gli acquisti, sperimentai un’accoglienza tutt’altro che cordiale, anzi direi proprio fredda e scontrosa. Insomma, se il paesaggio dello Mzab era assai pittoresco, con le belle città bianche e celesti, dolcemente adagiate sul pendio di basse colline, fui sgradevolmente colpita dalla ritrosia della sua gente.
In cerca di un riparo per la notte
In serata giungemmo all’oasi di Laghouat, dove avevamo intenzione di passare la notte; ma la ricerca di un albergo decente si rivelò infruttuosa. Dei milanesi che lavoravano lì, incontrati per caso, ci sconsigliarono alberghi che non fossero di lusso. Dopo aver discusso anche con certi tizi dall’aria poco raccomandabile su un eventuale pernottamento in una stamberga, da loro definita casa o pensione (non si capiva bene il loro francese), decidemmo senza troppo entusiasmo di rimetterci in marcia.

Nel frattempo si era fatta notte e anche se la strada era perfettamente agevole, eravamo preoccupati per il lungo tragitto che ci restava ancora da percorrere fino alla prossima oasi, Djelfa, dove, secondo una notizia fornitaci da una signora francese incontrata nel corso del viaggio, esisteva un altro convento dei Padri Bianchi. Ormai lo consideravamo come ultimo rifugio per quella notte.

All’improvviso trovammo la via interrotta: un’incerta sagoma, scarsamente visibile nel buio fitto, si stava sbracciando per farci capire che dovevamo arrestarci: si trattava di una guardia incaricata di bloccare il traffico. Ci spiegò che in quel punto un torrente, gonfiato da una pioggia eccezionale per la stagione, era straripato sommergendo un bel tratto di strada. Non ci restò che attendere il nostro turno, per la verità non a lungo. Poi ci dettero il via per attraversare la piena a guado. Avanzammo allora titubanti, pur considerando che l’acqua non poteva arrivare che a un’altezza di pochi centimetri. Rolando procedette cauto, perché le ruote erano immerse per una buona metà, finché toccammo con un sospiro di sollievo l’altra sponda.
Notte memorabile a Djelfa
Dopo un breve tratto la strada iniziò a salire fin oltre i mille metri, altitudine in cui era situata Djelfa, la nostra meta. Ma giunti in paese, ci rendemmo conto che ormai era troppo tardi per metterci alla ricerca della missione. Per fortuna, individuammo un albergo, certo non di lusso ma dall’aspetto dignitoso, che si affacciava sulla via principale. Due Land Rover con targa italiana, parcheggiate proprio di fronte all’ingresso, contribuirono a darci un senso di sicurezza.

Eravamo affamati e prima di ogni cosa andammo dritti al ristorante dell’albergo dove, nonostante l’ora tarda, non fecero storie per servirci. Mentre cenavamo con le consuete bistecche accompagnate dalle “frites”, scambiammo qualche parola con gli unici altri avventori del locale, i proprietari delle Land che facevano parte di una comitiva di italiani. Dopo aver scambiato due parole di saluto, prendemmo a conversare animatamente, con la soddisfazione tipica dei connazionali che si incontrano in luoghi tanto remoti.

Ci dissero che erano diretti verso l’estremo sud. Ci misero anche al corrente che si potevano correre dei rischi a lasciare la macchina incustodita durante la notte: loro avevano deciso pertanto che due del gruppo avrebbero dormito nelle auto per evitare inconvenienti.
A Rolando venne allora in mente l’idea, che mi parve ottima, di parcheggiare la Ford nei pressi della gendarmeria, con inserito pure l’allarme. Sistemata la faccenda, stanchi morti per le tante avventure della giornata, chiedemmo all’albergatore di accompagnarci nella nostra stanza. Ci fece strada per le scale che salivano fino a un ballatoio rettangolare. Affacciandosi da lassù si dominava il cortile adibito a caffè. Vista dall’alto la scena risultava alquanto pittoresca, evocava i quadri dei grandi orientalisti: seduti ai tavoli, diversi arabi, vestiti nei loro costumi tradizionali, erano intenti a bere, fumare, giocare a carte. Proprio su questo ballatoio si aprivano le stanze da letto che avevano la porta sul lato del cortile, ma anche la finestra, per cui la privacy era garantita appena da una tendina.

Dopo aver visitato i servizi comuni niente affatto accoglienti, ci chiudemmo in camera. Infilandomi nel letto, mi accorsi con disappunto che le lenzuola non si potevano dire proprio di bucato. Ma la stanchezza la vinse sul ribrezzo, per cui crollammo in un lampo nel più profondo dei sonni.

A un certo punto fummo svegliati di soprassalto da un bussare calmo ma deciso alla porta. Scostando le tendine della finestrella, si potevano scorgere due individui che stavano confabulando fra loro; in uno dei due riconobbi l’albergatore. 
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